Il DVD manca.
Cerchi la custodia. La trovi. Ti aspetti il DVD.
Invece quello manca, perso in chissà quale lettore o su chissà quale scrivania.
Delusione e senso di colpa per quella volta che
"lo metto a posto dopo".
...
Oggi apro la mia casella di posta ed è vuota.
Ieri e ieri l'altro e il giorno prima ancora avevo fatto il compitino: inviare curriculum.
Oggi che è venerdì controllo quante risposte ho ricevuto.
Nessuna.
Inviare una mail è come lasciare una pistola in scena: tutti si aspettano che prima o poi spari.
Siccome se invio una mail è perché mi piace quello che ho scritto, mi aspetto sempre che dall'altra parte della rete, chi la legge abbia piacere di rispondermi.
Invece quasi sempre succede DELETE, o "SEGNA-COME-LETTA", o "quando ho tempo la rileggo".
Sicuramente a volte succede anche
"Che cazzo ha scritto?!?" e "Ho già mal di testa e invece di questa mi leggo il bugiardino dell'Aulin".
Cerco con impegno sulla mia rubrica. E sui siti lavoro. E sulle pubblicità.
Ma la casella rimane vuota, e la paura è che semplicemente i miei invii siano fuori fuoco, come foto venute male.
Non abbiano preso bene la mira.
Non abbiano avvisato il modello di restare fermo.
Forse quelli a cui scrivo semplicemente non si aspettano di ricevere qualcosa da me, e quindi non si curano di guardare in macchina, di mettersi in posa, di rendermi il lavoro facile.
In ogni caso, delusione e un po' di senso di colpa perché
"Secondo me qui mi piacerebbe lavorare",
senza aver pensato che non sono così indispensabile al sistema produttivo italiano...
Boh.
Buon venerdì, comunque.
A
venerdì 27 novembre 2009
giovedì 26 novembre 2009
Goooood-morning-Milan!
La mia sveglia.
Ochei, è anche un telefono. Ma non viviamo forse nell'era della convergenza?
Comunque: anche stamattina, come ogni feriale da un annetto e mezzo in qua, ha suonato alle 07:10 per ricordarmi che la metro non aspetta i miei comodi.
E anche stamattina, come ogni feriale da un anno e mezzo in qua, mi sono girato dall'altra parte.
Una cosa buona della mia sveglia è che ha una suoneria orribile.
Fastidiosa. Insopportabile. Ma soprattutto implacabile.
Magari si ferma dopo un minuto di trombe del giudizio, ma poi ricomincia a strillare da capo, fin quando non mi decido a spegnerla.
L'intervallo tra un allarme e l'altro è di cinque minuti.
Quei cinque minuti sono i più celebralmente attivi della giornata, per ogni feriale da un annetto e mezzo in qua.
Strascichi di sogni. Illuminazioni. Frasi&citazioni e quel
"Vaffanculo!"
che ieri non ho avuto la prontezza di dire all'automobilista che mi ha quasi investito scambiando viale Monza per l'autodromo di.
Poi domande.
"Bene: cosa faccio oggi?"
Lavoro. Ochei, questo è facile. Mi alzo e mi lavo e mi sbarbo e mi vesto e mi intabarro e mi faccio visionare il biglietto e mi schiaccio tra i pendolari e mi scendo e mi spoglio -del soprabito- e mi siedo e mi accendo il pc, come in tutti i feriali dell'ultimo anno e mezzo.
Però non è proprio come sempre: perché adesso non sto lavorando... Sto onorando-il-contratto.
Il che significa che quando un collega arriva eccitato per un certo articolo o progetto o proposta, io per quanto mi sforzi non riesco proprio a farmi brillare gli occhi.
O a commentare argutamente. O a sfornare idee complementari e ornamentali.
La mia testa, forse non proprio lecitamente, gira su altre orbite.
Certo che ho idee. Certo che ho passioni. Certo che ho un piano.
Solo che la sospensione-del-disinteresse verso quello di cui adesso tratta la mia redazione non è più obbligatoria. E di certo non mi viene spontanea. In fondo, non rinnovo il contratto proprio per questo. Sta raccontando fuffa, ma soprattutto sta cercando di raccontarla male e per il motivo sbagliato.
...
Nel letto ho la sensazione che alzarmi non sia una buona idea. Mi alzo lo stesso, perché onorare-il-contratto è qualcosa che posso e devo fare, anche senza motivazioni particolari. Però mi servono dei perché-e-percome per fare andare le gambe.
(Senza un'idea non ci si alza dal letto, purtroppo, Morgan dixit)
Quindi i perché-e-percome me li invento.
Cercare un'agenzia cui mandare il CV.
Finire quel racconto.
Scrivere un post.
Raccontare storie.
Ridere e dire cazzate.
Ridere e dire cose serie.
Ridere e basta.
Non sono sicuro che questo voglia dire essere ottimisti, e quindi mettere in pratica il consiglio di amici&lettori&presidenti-del-consiglio. Ma è la mia scusa per spegnere la suoneria.
Questo, e il fatto che ha un suono orrendo.
Anche stamattina posso avere qualcosa di interessante da fare, giusto?
E se per farlo dovrò ritagliare i minuti tra attività noiose ma -ancora per poco- retribuite, pazienza.
A
Ochei, è anche un telefono. Ma non viviamo forse nell'era della convergenza?
Comunque: anche stamattina, come ogni feriale da un annetto e mezzo in qua, ha suonato alle 07:10 per ricordarmi che la metro non aspetta i miei comodi.
E anche stamattina, come ogni feriale da un anno e mezzo in qua, mi sono girato dall'altra parte.
Una cosa buona della mia sveglia è che ha una suoneria orribile.
Fastidiosa. Insopportabile. Ma soprattutto implacabile.
Magari si ferma dopo un minuto di trombe del giudizio, ma poi ricomincia a strillare da capo, fin quando non mi decido a spegnerla.
L'intervallo tra un allarme e l'altro è di cinque minuti.
Quei cinque minuti sono i più celebralmente attivi della giornata, per ogni feriale da un annetto e mezzo in qua.
Strascichi di sogni. Illuminazioni. Frasi&citazioni e quel
"Vaffanculo!"
che ieri non ho avuto la prontezza di dire all'automobilista che mi ha quasi investito scambiando viale Monza per l'autodromo di.
Poi domande.
"Bene: cosa faccio oggi?"
Lavoro. Ochei, questo è facile. Mi alzo e mi lavo e mi sbarbo e mi vesto e mi intabarro e mi faccio visionare il biglietto e mi schiaccio tra i pendolari e mi scendo e mi spoglio -del soprabito- e mi siedo e mi accendo il pc, come in tutti i feriali dell'ultimo anno e mezzo.
Però non è proprio come sempre: perché adesso non sto lavorando... Sto onorando-il-contratto.
Il che significa che quando un collega arriva eccitato per un certo articolo o progetto o proposta, io per quanto mi sforzi non riesco proprio a farmi brillare gli occhi.
O a commentare argutamente. O a sfornare idee complementari e ornamentali.
La mia testa, forse non proprio lecitamente, gira su altre orbite.
Certo che ho idee. Certo che ho passioni. Certo che ho un piano.
Solo che la sospensione-del-disinteresse verso quello di cui adesso tratta la mia redazione non è più obbligatoria. E di certo non mi viene spontanea. In fondo, non rinnovo il contratto proprio per questo. Sta raccontando fuffa, ma soprattutto sta cercando di raccontarla male e per il motivo sbagliato.
...
Nel letto ho la sensazione che alzarmi non sia una buona idea. Mi alzo lo stesso, perché onorare-il-contratto è qualcosa che posso e devo fare, anche senza motivazioni particolari. Però mi servono dei perché-e-percome per fare andare le gambe.
(Senza un'idea non ci si alza dal letto, purtroppo, Morgan dixit)
Quindi i perché-e-percome me li invento.
Cercare un'agenzia cui mandare il CV.
Finire quel racconto.
Scrivere un post.
Raccontare storie.
Ridere e dire cazzate.
Ridere e dire cose serie.
Ridere e basta.
Non sono sicuro che questo voglia dire essere ottimisti, e quindi mettere in pratica il consiglio di amici&lettori&presidenti-del-consiglio. Ma è la mia scusa per spegnere la suoneria.
Questo, e il fatto che ha un suono orrendo.
Anche stamattina posso avere qualcosa di interessante da fare, giusto?
E se per farlo dovrò ritagliare i minuti tra attività noiose ma -ancora per poco- retribuite, pazienza.
A
mercoledì 25 novembre 2009
Ticket-to-ride
C'è biglietto e biglietto.
Questi ad esempio sono biglietti omaggio.
Un giornalista -a meno che non sia un giornalista di cronaca, che se una cosa non sanguina mica la guarda- li chiama accrediti.
Funzionano così: tu o la redazione per cui lavori chiama il teatro o il suo ufficio stampa e
"Ne mandiamo uno a vedere lo spettacolo così ci scrive la recensione"
Il teatro risponde
"Grazie, chi dobbiamo accreditare?"
ed evidenetemente intende
"Chi dobbiamo fare entrare aggratis nella speranza che ci faccia pubblicità?"
C'è un po' di mercantilismo in tutto questo ma non guardiamo sempre il lato economico.
Guardiamo il lato umano.
Io vado a teatro a scrocco.
...
L'accredito, per un giornalista, è l'equivalente dello sconto del 30% sulle tute da sub per un commesso della Decatlon. Voglio dire, se fai il commesso delle tute da sub in Decatlon mi auguro che ti piaccia anche usarle nelle immersioni. Quindi quando ne esce un modello nuovonuovo, essere il primo a potersela comprare e per di più pagandola meno è una bella gratificazione.
Sai che soddisfazione farci fish-watching, poi.
Bene, se scrivi recensioni teatrali si suppone che andare a teatro ti piaccia, e che tu sia felice quando puoi vedere uno spettacolo in anteprima, per di più gratis. Sono i tuoi benefit aziendali.
Ma non è solo questo: anche se 'sto mercantilismo serpeggia un po' dappertutto, un giornalista può illudersi che il suo giudizio valga davvero qualcosa, perché avrà la responsabilità di far capire ai lettori se domani sera pagheranno il biglietto o guarderanno la maratona di Chivuolessersagittario in tv. Mica poco.
Bene, oggi, mandato il curriculum quotidiano, sarei stato pronto per andare a teatro. Per recensire uno spettacolo che, stanti i comunicati stampa, è un bello spettacolo.
Avevo la voglia, la freschezza e persino lo spirito critico con le lame appena rifatte.
Invece resto a casa. Nulla di male: a teatro ci è andato un collega. Capita. Si chiama turnazione, e in una redazione ha un significato migliore di quello che ha a Termini Imerense, per dire un posto.
"Domani leggo al recensione e decido se andarci per i fatti miei"
penso mentre taglio l'insalata.
Invece no.
Perché il mio collega, quello che ha preso l'accredito al mio posto, ha deciso che stasera non gli andava di uscire.
Non è malato. Non ha avuto problemi a casa. Non l'hanno rapito i Ravanelli Cornuti di Mongo.
Non
Gli
Andava.
Behcazzosenonèunmalequestodadomani
-respiro-
bestemmiateinchiesainvecedidireamen.
Perché ha fatto fare una figura barbina alla redazione per cui lavora, e la prossima volta
"Ne mandiamo..."
"Mandate chi volete basta che non sia di nuovo l'Uomo Invisibile"
Perché a quello spettacolo potevo andarci io e cazzo a me sarebbe piaciuto.
Ma soprattutto... Perché quella gratificazione, quel benefit, quel valere qualcosa di cui sopra, probabilmente è una piccolezza, però credere che qualcosa conti, ed essere disposti, per averla, a fare qualche sacrificio, anche a superare non dico un'invasione di tuberi ma almeno un maldipancia...
Insomma questo fa la differenza fra chi un lavoro se lo merita e chi se lo trova.
Tra chi un biglietto se lo guadagna e chi semplicemente... Va a scrocco.
E adesso non ditemi che l'omino delle tute al decatlon non sa nuotare, sennò davvero si ribalta il mondo.
A
Questi ad esempio sono biglietti omaggio.
Un giornalista -a meno che non sia un giornalista di cronaca, che se una cosa non sanguina mica la guarda- li chiama accrediti.
Funzionano così: tu o la redazione per cui lavori chiama il teatro o il suo ufficio stampa e
"Ne mandiamo uno a vedere lo spettacolo così ci scrive la recensione"
Il teatro risponde
"Grazie, chi dobbiamo accreditare?"
ed evidenetemente intende
"Chi dobbiamo fare entrare aggratis nella speranza che ci faccia pubblicità?"
C'è un po' di mercantilismo in tutto questo ma non guardiamo sempre il lato economico.
Guardiamo il lato umano.
Io vado a teatro a scrocco.
...
L'accredito, per un giornalista, è l'equivalente dello sconto del 30% sulle tute da sub per un commesso della Decatlon. Voglio dire, se fai il commesso delle tute da sub in Decatlon mi auguro che ti piaccia anche usarle nelle immersioni. Quindi quando ne esce un modello nuovonuovo, essere il primo a potersela comprare e per di più pagandola meno è una bella gratificazione.
Sai che soddisfazione farci fish-watching, poi.
Bene, se scrivi recensioni teatrali si suppone che andare a teatro ti piaccia, e che tu sia felice quando puoi vedere uno spettacolo in anteprima, per di più gratis. Sono i tuoi benefit aziendali.
Ma non è solo questo: anche se 'sto mercantilismo serpeggia un po' dappertutto, un giornalista può illudersi che il suo giudizio valga davvero qualcosa, perché avrà la responsabilità di far capire ai lettori se domani sera pagheranno il biglietto o guarderanno la maratona di Chivuolessersagittario in tv. Mica poco.
Bene, oggi, mandato il curriculum quotidiano, sarei stato pronto per andare a teatro. Per recensire uno spettacolo che, stanti i comunicati stampa, è un bello spettacolo.
Avevo la voglia, la freschezza e persino lo spirito critico con le lame appena rifatte.
Invece resto a casa. Nulla di male: a teatro ci è andato un collega. Capita. Si chiama turnazione, e in una redazione ha un significato migliore di quello che ha a Termini Imerense, per dire un posto.
"Domani leggo al recensione e decido se andarci per i fatti miei"
penso mentre taglio l'insalata.
Invece no.
Perché il mio collega, quello che ha preso l'accredito al mio posto, ha deciso che stasera non gli andava di uscire.
Non è malato. Non ha avuto problemi a casa. Non l'hanno rapito i Ravanelli Cornuti di Mongo.
Non
Gli
Andava.
Behcazzosenonèunmalequestodadomani
-respiro-
bestemmiateinchiesainvecedidireamen.
Perché ha fatto fare una figura barbina alla redazione per cui lavora, e la prossima volta
"Ne mandiamo..."
"Mandate chi volete basta che non sia di nuovo l'Uomo Invisibile"
Perché a quello spettacolo potevo andarci io e cazzo a me sarebbe piaciuto.
Ma soprattutto... Perché quella gratificazione, quel benefit, quel valere qualcosa di cui sopra, probabilmente è una piccolezza, però credere che qualcosa conti, ed essere disposti, per averla, a fare qualche sacrificio, anche a superare non dico un'invasione di tuberi ma almeno un maldipancia...
Insomma questo fa la differenza fra chi un lavoro se lo merita e chi se lo trova.
Tra chi un biglietto se lo guadagna e chi semplicemente... Va a scrocco.
E adesso non ditemi che l'omino delle tute al decatlon non sa nuotare, sennò davvero si ribalta il mondo.
A
martedì 24 novembre 2009
Metro Linea 2
Dammi oggi la mia metro quotidiana.
Mezz'ora abbondante, da casa al lavoro. Città di Milano.
Linea due prima, poi due fermate di rossa.
Milano è la sua metropolitana, senza dubbio. Di mattina incazzata, di sera sfatta. In mezzo vuota.
Il mio problema oggi è non incontrare nessuno.
Non è difficile nel caos di millemila individui concentrati a proteggere il loro angolino di intimità, chi leggendo un giornale accartocciato a due millimetri dal naso, chi chiudendo gli occhi per recuperare qualche minuto di sonno, chi ancora fingendosi interessato alla tal pubblicità che in realtà non legge neppure.
Però il pericolo di un'occhiata casuale, di uno scontro nella calca, di un colpo di tosse a volume troppo alto c'è.
Uno mi riconosce e
"Allora, come va?"
con tutta l'innocenza del disinteresse.
Cosa dovrei dire, allora?
"Tutto bene: ho mollato il lavoro"
Oppure
"Cosìcosì: ho mollato il lavoro"
Oppure
"Malissimo: ho mollato il lavoro"
Non richiesto, parlerei del lavoro.
Perché ahimé il lavoro è l'angoscia delle prime ore della mia giornata.
Poi passa. Ma poi ritorna.
Allora in metro ho gli occhi sfuggenti del solito, per evitare ogni contatto.
Per evitare di dire a voce quello che poi scrivo qui.
Non so se si tratta di ipocrisia, di pusillanimità o di paura.
Di certo, è difficile non sentirsi in imbarazzo di fronte a uno incravattato che ti parla della sua prossima Ferrari quando tu non sei sicuro di poter fare un altro pieno alla Matiz.
Magari è solo orgoglio.
In effetti mi dicono tutti che è un brutto difetto. Anzi: un lusso.
E i lussi mica tutti se li possono permettere, sennò che lussi sarebbero?
...
D'altronde, bisogna ricordarsi che la metro è come Milano.
Quello che c'è qui è la città, più o meno.
Gente incazzata al mattino. Sfatta la sera. Assente nel mezzo.
Gente che non sembra troppo felice, anche se più tardi andrà a sgasare col Ferrari.
Che infondo fa tutti i giorni esattamente quello che cerco di fare io adesso: evitare il contatto per non dover parlare di se'.
Vuoi vedere che non sono l'unico angosciato in metropolitana?
Che ci ho messo trent'anni a capire come sta la maggior parte delle persone che ho attorno la mattina?
E che, peggio di tutto, sono stato uno di quei rari coglioni che per educazione, non per interesse
"comeva?"
ti chiedono, rovinandoti così la giornata?
Chi lo sa...
A
Mezz'ora abbondante, da casa al lavoro. Città di Milano.
Linea due prima, poi due fermate di rossa.
Milano è la sua metropolitana, senza dubbio. Di mattina incazzata, di sera sfatta. In mezzo vuota.
Il mio problema oggi è non incontrare nessuno.
Non è difficile nel caos di millemila individui concentrati a proteggere il loro angolino di intimità, chi leggendo un giornale accartocciato a due millimetri dal naso, chi chiudendo gli occhi per recuperare qualche minuto di sonno, chi ancora fingendosi interessato alla tal pubblicità che in realtà non legge neppure.
Però il pericolo di un'occhiata casuale, di uno scontro nella calca, di un colpo di tosse a volume troppo alto c'è.
Uno mi riconosce e
"Allora, come va?"
con tutta l'innocenza del disinteresse.
Cosa dovrei dire, allora?
"Tutto bene: ho mollato il lavoro"
Oppure
"Cosìcosì: ho mollato il lavoro"
Oppure
"Malissimo: ho mollato il lavoro"
Non richiesto, parlerei del lavoro.
Perché ahimé il lavoro è l'angoscia delle prime ore della mia giornata.
Poi passa. Ma poi ritorna.
Allora in metro ho gli occhi sfuggenti del solito, per evitare ogni contatto.
Per evitare di dire a voce quello che poi scrivo qui.
Non so se si tratta di ipocrisia, di pusillanimità o di paura.
Di certo, è difficile non sentirsi in imbarazzo di fronte a uno incravattato che ti parla della sua prossima Ferrari quando tu non sei sicuro di poter fare un altro pieno alla Matiz.
Magari è solo orgoglio.
In effetti mi dicono tutti che è un brutto difetto. Anzi: un lusso.
E i lussi mica tutti se li possono permettere, sennò che lussi sarebbero?
...
D'altronde, bisogna ricordarsi che la metro è come Milano.
Quello che c'è qui è la città, più o meno.
Gente incazzata al mattino. Sfatta la sera. Assente nel mezzo.
Gente che non sembra troppo felice, anche se più tardi andrà a sgasare col Ferrari.
Che infondo fa tutti i giorni esattamente quello che cerco di fare io adesso: evitare il contatto per non dover parlare di se'.
Vuoi vedere che non sono l'unico angosciato in metropolitana?
Che ci ho messo trent'anni a capire come sta la maggior parte delle persone che ho attorno la mattina?
E che, peggio di tutto, sono stato uno di quei rari coglioni che per educazione, non per interesse
"comeva?"
ti chiedono, rovinandoti così la giornata?
Chi lo sa...
A
lunedì 23 novembre 2009
Quanti tasti hai?
Questa è la mia tastiera.
Ha 103 tasti.
Scommetto che voi non avete contato i tasti della vostra, ma molto probabilmente non è molto diversada questa.
Tutti hanno una tastiera.
Tutti battono i tasti.
Tutti sanno schiacciare Alt gr+ò per fare la @.
E forse è questo il problema.
Cioè, il fatto che tutti sappiano come si fa a scrivere con una tastiera per un sacco di gente implica che tutti sappiano scrivere. E non dico scrivere come
unlitrodilatte paneafette detergentemamiraccomandoquelloblu
Intendo raccontare le cose senza essere lì a parlartene.
Il mio mestiere, o presunto tale, e quello di un sacco di persone con cui ho parlato in questi giorni.
Qualcuno dice
"Non ci si improvvisa chirurghi, ma tutti pensano di poter fare i giornalisti"
qualcun altro
"lavoro qui da due anni ma mi cacceranno via perché tanto, per fare quel che faccio io, a loro basta uno che sappia fare copiaincolla"
Un altro ancora non mi dice niente, e lo capisco: una bestemmia non è una buona argomentazione quindi meglio tenersela in bocca, affare tra sé stessi e iddio per chi ci crede.
Per quanto sia stupido pensare che chi sa picchiare un chiodo nel legno sappia costruire un armadio, un sacco di persone crede davvero che per raccontare una storia basti saper scrivere; che cucinare un CS sia come fare il tema delle medie; che nulla sia più inutile di un redattore che controlla le fonti prima di pubblicare.
O meglio: il problema sono le aspettative. Magari qualcuno è anche convinto che far le cose per bene sia difficile ma... A chi interessa far le cose per bene? In quanti si accorgeranno dei refusi? Chi preferirà l'armadio solido a quello economico?
...
Anche oggi ho mandato il mio curriculum quotidiano.
Ne mando uno al giorno perché non voglio mandarli a caso.
Cerco un'agenzia, o una testata, o una casa editrice che si occupa di cose che mi piacciono e su cui mi sento ferrato. Mi navigo il sito. Leggo degli articoli, se ne trovo.
Mi cerco anche i nomi degli altri redattori, e dei direttori, e persino degli editori.
Tutto mentre onoro-il-mio-contratto, ovviamente, concentrando le ricerche nella pausa pranzo che, facendo felice il tal ministro, consumo tendenzialmente davanti al PC.
Insomma: studio. E dopo aver studiato, invio, con tanto di lettera di presentazione pensata per metter in luce chessò che ho già parlato delle Alpi Apuane, del verde della Garfagnana, del rombo del trattore in salita. Credo a quel che scrivo e quel che scrivo in fondo mi piace, perché è un pezzettino di me.
Non so se questo cambi qualcosa. Non credo che importi davvero alla maggior parte delle pesone che si troveranno a valutare il mio curriculum, né mi illudo che qualcuno pensi ch'io sappia scrivere perché ho contato i tasti della mia tastiera.
Però...
Però c'è qualcosa che fa la differenza.
E' la voglia. Non la volontà. La voglia. Il piacere. La passione.
Non racconto storie perché altrimenti non mangerei. Non lo faccio perché qualcuno mi obbliga. Neppure perché non ho nient'altro da fare.
Lo faccio perché ne ho voglia.
Perché non è la stessa cosa per me se la tastiera sta zitta o se ci batto sopra, e ancora se è solo freccespazioalt per qualche emulatore di giochi da bar o tabtabtab per passare da un menù a tendina all'altro. Perché se m'esce qualcosa di comprensibile dalle dita e qualcuno lo legge la giornata è fatta, nonostante non ci sia un contratto.
Non dico che la mia tastiera sia diversa dalla maggior parte di quelle che state usando voi.
E infatti mi piacerebbe scrivere anche sulle vostre.
A
Ha 103 tasti.
Scommetto che voi non avete contato i tasti della vostra, ma molto probabilmente non è molto diversada questa.
Tutti hanno una tastiera.
Tutti battono i tasti.
Tutti sanno schiacciare Alt gr+ò per fare la @.
E forse è questo il problema.
Cioè, il fatto che tutti sappiano come si fa a scrivere con una tastiera per un sacco di gente implica che tutti sappiano scrivere. E non dico scrivere come
unlitrodilatte paneafette detergentemamiraccomandoquelloblu
Intendo raccontare le cose senza essere lì a parlartene.
Il mio mestiere, o presunto tale, e quello di un sacco di persone con cui ho parlato in questi giorni.
Qualcuno dice
"Non ci si improvvisa chirurghi, ma tutti pensano di poter fare i giornalisti"
qualcun altro
"lavoro qui da due anni ma mi cacceranno via perché tanto, per fare quel che faccio io, a loro basta uno che sappia fare copiaincolla"
Un altro ancora non mi dice niente, e lo capisco: una bestemmia non è una buona argomentazione quindi meglio tenersela in bocca, affare tra sé stessi e iddio per chi ci crede.
Per quanto sia stupido pensare che chi sa picchiare un chiodo nel legno sappia costruire un armadio, un sacco di persone crede davvero che per raccontare una storia basti saper scrivere; che cucinare un CS sia come fare il tema delle medie; che nulla sia più inutile di un redattore che controlla le fonti prima di pubblicare.
O meglio: il problema sono le aspettative. Magari qualcuno è anche convinto che far le cose per bene sia difficile ma... A chi interessa far le cose per bene? In quanti si accorgeranno dei refusi? Chi preferirà l'armadio solido a quello economico?
...
Anche oggi ho mandato il mio curriculum quotidiano.
Ne mando uno al giorno perché non voglio mandarli a caso.
Cerco un'agenzia, o una testata, o una casa editrice che si occupa di cose che mi piacciono e su cui mi sento ferrato. Mi navigo il sito. Leggo degli articoli, se ne trovo.
Mi cerco anche i nomi degli altri redattori, e dei direttori, e persino degli editori.
Tutto mentre onoro-il-mio-contratto, ovviamente, concentrando le ricerche nella pausa pranzo che, facendo felice il tal ministro, consumo tendenzialmente davanti al PC.
Insomma: studio. E dopo aver studiato, invio, con tanto di lettera di presentazione pensata per metter in luce chessò che ho già parlato delle Alpi Apuane, del verde della Garfagnana, del rombo del trattore in salita. Credo a quel che scrivo e quel che scrivo in fondo mi piace, perché è un pezzettino di me.
Non so se questo cambi qualcosa. Non credo che importi davvero alla maggior parte delle pesone che si troveranno a valutare il mio curriculum, né mi illudo che qualcuno pensi ch'io sappia scrivere perché ho contato i tasti della mia tastiera.
Però...
Però c'è qualcosa che fa la differenza.
E' la voglia. Non la volontà. La voglia. Il piacere. La passione.
Non racconto storie perché altrimenti non mangerei. Non lo faccio perché qualcuno mi obbliga. Neppure perché non ho nient'altro da fare.
Lo faccio perché ne ho voglia.
Perché non è la stessa cosa per me se la tastiera sta zitta o se ci batto sopra, e ancora se è solo freccespazioalt per qualche emulatore di giochi da bar o tabtabtab per passare da un menù a tendina all'altro. Perché se m'esce qualcosa di comprensibile dalle dita e qualcuno lo legge la giornata è fatta, nonostante non ci sia un contratto.
Non dico che la mia tastiera sia diversa dalla maggior parte di quelle che state usando voi.
E infatti mi piacerebbe scrivere anche sulle vostre.
A
domenica 22 novembre 2009
Diversamente WE
Primo fine settimana da diversamente occupato.
Apparentemente non è cambiato nulla sulla mia scrivania.
Invece qualcosa è cambiato.
Che la sto guardando.
Quando lavoravolavoravolavoravo, il sabato e la domenica erano un concentrato di voglie inespresse così compresso che, quando finalmente iniziavano, quasi tutto il bello scappava fuori come la schiuma da una bottiglia di spumante agitata troppo prima di stapparla.
Gitarelladiscotecatarantella. Capogiro d'etilismo in salsa cocktail. Tutti al supermarket dell'intrattenimento a far la fila un'ora per veder 45 minuti di spettacolo.
Cose così.
Non me lo godevo, il risposo settimanale, perché sapevo di dovermi divertire, dopo tutto quel batti ribatti e ameni sbatti sul lavoro.
Cosa cambia?
Adesso il mio lavoro è impiegare il tempo, quindi anche sabato e domenica sono giorni come tutti gli altri. Alla faccia delle religioni monoteiste (l'Islam ha il venerdì , il sabato è per l'Ebraismo, Domenica è quello del Cristiano), gli ultimi tre giorni della settimana mi cadono nel democratico proletariato della ferialità. Com'è un sabato degradato a martedì? O una domenica declassata a giovedì?
Beh, per ora meglio del previsto.
Vige l'austerity, ma non la parsimonia, visto che il mio quasi ex-lavoro mi concedeva un buon reddito. Quindi una birra con gli amici resta una gran baldoria.
E, si sa, bere concilia la chiacchiera molto più che mangiare, visto che occupa meno le mascelle.
Quindi ieri c'è stata bisboccia, e più ridanciana del solito.
Poi c'è il teatro, due spettacoli su tre sere.
Eppoi ancora il sonno. Nove ore di sonno a notte. Un'infinità se si pensa che l'unica risorsa veramente scarsa con cui mi sono confrontato negli ultmi 18 mesi è stato il tempo.
Siccome nel fine settimana non ci sono le otto ore di contratto-da-onorare, infine, c'è stato un sacco di spazio per lavorare sul mio futuro. Leggere. Scrivere (anche su questo blog). Mandare qualche curriculum. Angosciarmi un po'. Pensare e progettare e cercare.
E guardare la scrivania.
Ci sono un sacco di cose che probabilmente dovrebbero trovarsi altrove. Invece scazzo disordine trasloco le hanno lasciate proprio dove sono. Qui.
Appunti. Libri. Fumetti. Il dizionario. Biglietti del treno. Quaderni. La tastiera nuova.
Maschera e cappello perché faccio teatro. Il tamburino di Milano perché oltre a farlo, il teatro vado a guardarlo.
Cose mie, che immagino abbiano qualcosa da raccontare su di me.
Ripartiamo da qui. Da quello che sono stato e che quindi continuerò a essere, anche se forse in maniera nuova. Riconsideriamo la mia soggettività, come ho sentito dire a qualcuno.
E' una riscoperta, questo WE, stretto in un pugno di euro e in un migliaio di caratteri di storiella. Ed è la seconda pagina di un diario che mi auguro se non lungo, almeno ricco.
A
Apparentemente non è cambiato nulla sulla mia scrivania.
Invece qualcosa è cambiato.
Che la sto guardando.
Quando lavoravolavoravolavoravo, il sabato e la domenica erano un concentrato di voglie inespresse così compresso che, quando finalmente iniziavano, quasi tutto il bello scappava fuori come la schiuma da una bottiglia di spumante agitata troppo prima di stapparla.
Gitarelladiscotecatarantella. Capogiro d'etilismo in salsa cocktail. Tutti al supermarket dell'intrattenimento a far la fila un'ora per veder 45 minuti di spettacolo.
Cose così.
Non me lo godevo, il risposo settimanale, perché sapevo di dovermi divertire, dopo tutto quel batti ribatti e ameni sbatti sul lavoro.
Cosa cambia?
Adesso il mio lavoro è impiegare il tempo, quindi anche sabato e domenica sono giorni come tutti gli altri. Alla faccia delle religioni monoteiste (l'Islam ha il venerdì , il sabato è per l'Ebraismo, Domenica è quello del Cristiano), gli ultimi tre giorni della settimana mi cadono nel democratico proletariato della ferialità. Com'è un sabato degradato a martedì? O una domenica declassata a giovedì?
Beh, per ora meglio del previsto.
Vige l'austerity, ma non la parsimonia, visto che il mio quasi ex-lavoro mi concedeva un buon reddito. Quindi una birra con gli amici resta una gran baldoria.
E, si sa, bere concilia la chiacchiera molto più che mangiare, visto che occupa meno le mascelle.
Quindi ieri c'è stata bisboccia, e più ridanciana del solito.
Poi c'è il teatro, due spettacoli su tre sere.
Eppoi ancora il sonno. Nove ore di sonno a notte. Un'infinità se si pensa che l'unica risorsa veramente scarsa con cui mi sono confrontato negli ultmi 18 mesi è stato il tempo.
Siccome nel fine settimana non ci sono le otto ore di contratto-da-onorare, infine, c'è stato un sacco di spazio per lavorare sul mio futuro. Leggere. Scrivere (anche su questo blog). Mandare qualche curriculum. Angosciarmi un po'. Pensare e progettare e cercare.
E guardare la scrivania.
Ci sono un sacco di cose che probabilmente dovrebbero trovarsi altrove. Invece scazzo disordine trasloco le hanno lasciate proprio dove sono. Qui.
Appunti. Libri. Fumetti. Il dizionario. Biglietti del treno. Quaderni. La tastiera nuova.
Maschera e cappello perché faccio teatro. Il tamburino di Milano perché oltre a farlo, il teatro vado a guardarlo.
Cose mie, che immagino abbiano qualcosa da raccontare su di me.
Ripartiamo da qui. Da quello che sono stato e che quindi continuerò a essere, anche se forse in maniera nuova. Riconsideriamo la mia soggettività, come ho sentito dire a qualcuno.
E' una riscoperta, questo WE, stretto in un pugno di euro e in un migliaio di caratteri di storiella. Ed è la seconda pagina di un diario che mi auguro se non lungo, almeno ricco.
A
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